La Rappresentazione della morte a Napoli – Un saggio a puntate – n.10

Puntata n. 10

Se come abbiamo visto nella puntata n. 9 l’espressione “memento mori” ha origine politico militare, il tema dell’ineluttabilità della morte fu affrontato innanzitutto in contesti che rimandano al simposio, in particolar modo dai poeti lirici greci, intenti a comporre poesie per intrattenere i “compagni” di banchetto. A darvi una lettura filosofica, però, fu soltanto la scuola epicurea, che a Napoli e in Campania ebbe molti seguaci: a Ercolano sorgeva il cenacolo di Filodemo di Gadara e a Posillipo insegnava Sirone, che poteva vantare tra i suoi alunni Virgilio e Orazio.

Non è quindi un caso che una versione accuratamente parodiata del simposio e degli argomenti ivi affrontati sia ambientata in una città della Magna Grecia come Napoli o Pozzuoli. Parliamo del celeberrimo episodio della Cena Trimalchionis, incluso nel Satyricon di Petronio.

Il personaggio che dà il nome all’episodio, il ricchissimo liberto Trimalchione, offre un lauto banchetto agli invitati, un vero e proprio spettacolo di portate incastonate l’una nell’altra. Nel bel mezzo della cena, nella sala entra un servo del padrone recante per lui uno scheletrino d’argento. Alla vista del giocattolino, Trimalchione intona un lamento: “Ahimè, poveri noi, come si riduce ad un bel nulla l’omuncolo tutto intero! Così diventeremo tutti, dopo che l’Orco ci avrà rapito. Perciò viviamo la vita, finché siamo vivi e vegeti”.

Lo scheletrino d’argento servito a Trimalchione esisteva davvero nell’antichità. Esso prendeva il nome di larva convivialis ed era uno dei numerosi esempi di oggetti-simbolo mostrati nei banchetti, al fine di ricordare agli invitati il termine della vita.

Nel Seicento il “memento mori” ritornerà centrale nell’iconografia della morte a Napoli.

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foto: mosaico romano con scena di banchetto.